Paolo Farinella presenta Aldo Antonelli

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Il testo della presentazione di don Paolo Farinella al libro di don Aldo Antonelli Meditazioni bandite. Il seme e il sale della Parola, in occasione dell’incontro di mercoledì 23 maggio 2018 nel Teatro Parrocchiale di Bussolengo (VR). Hanno introdotto il parroco don Giorgio Costa e don Felice Tenero, vicedirettore del CUM (Centro Unitario Missionario). Così ha parlato don Paolo, alla presenza di un folto pubblico, circa 130 persone giunte da diverse zone della città  e dalla provincia. Si ringraziano per la collaborazione: la Parrocchia di Santa Maria Maggiore di Bussolengo, le Comunità cristiane di base di Verona, i gruppi di Lettura Popolare.

 PRESENTAZIONE di Paolo Farinella, prete

Aldo Antonelli, Meditazioni bandite. Il seme e il sale della parola, prefazione di Carlo Molari, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano VR 2018, pp. 186

Presentare AAldo Antonelli, Meditazioni bandite, Gabrielli eduitori, Verona, Valpolicella, Carlo Molarildo Antonelli prete è difficile perché non è un prete normale, ma un prete «bandito» nel senso etimologico del termine, su cui dovremmo ritornare fra poco. Conoscendolo dagli anni ’60 del secolo scorso, pur non frequentandoci per la distanza, ma nutrendo una sintonia «interiore», posso asserire con tranquilla coscienza che egli è un prete «incarnato», non da culto o da processioni, come egli stesso afferma nel suo libro alle pp. 181-182. Nemmeno se si tratta della processione del «Corpus Domini», vero emblema blasfemo di un dio minore che non ha nulla da fare con il Dio di Gesù Cristo che ha preso pane e pesci e li ha moltiplicati per sfamare i presenti, ma anche per raccoglierne 12 ceste per le generazioni future, affermando così la responsabilità dei cristiani per ieri, oggi e domani. Il pane è fatto per essere mangiato e spezzato e condiviso non per essere «adorato». Se si conoscesse la storia della festa del Corpus Domini, si eviterebbero molte esagerazioni e stupidaggini. Certo, in un tempo di crisi, la processione è più facile, meno complicata della domanda di senso e Dio è una merce da usare come trofeo.

Don Aldo sa di correre un rischio e quindi si premunisce con furbizia, sapendo, da vero «bandito», di dire cose terribili o non facilmente digeribili. Egli si mette al riparo, cercandosi una compagnia indiscutibile perché vera e genuina, a cominciare dalla prefazione di un grande teologo vivente, Carlo Molari, che fa una straordinaria e sintetica riflessione sul rapporto tra Dio e le cose, i miracoli, la sua onnipotenza e il suo limite, partendo dai classici medievali, per concludere con tre condizioni per avere una vita di preghiera (pp. 10-14).

Quando parla di processioni, don Aldo si mette accanto ai giganti che segnarono il sec. XX come Dom Hélder Cámara, il grande testimone del ‘900 nel Nord-Est del Brasile e anima invisibile ma trascinatrice ed efficace del concilio Vaticano II: «è facile adorare il Cristo presente nell’ostia della messa. Ma a che serve se non si riconosce la presenza di Cristo nei fratelli abbandonati e vittime della povertà ingiusta della nostra società?». Oppure don Tonino Bello, il sosia del «Pastore Bello» (cf Gv 10,11) che afferma: «Le nostre Messe dovrebbero smascherare i nuovi volti dell’idolatria… e ci hanno impedito di udire il grido dei poveri Lazzari che stanno fuori la porta del nostro banchetto».

Ho detto che don Aldo è un «bandito». Soffermiamoci su questa parola e assaporiamone il senso in differenti direzioni.

  1. Dal sanscrito Bhâs – parola e dalla radice indoeuropea Bha – apparire/mostrare, si ha l’idea di «una parola mostrata/pubblicata/dichiarata»; da qui l’idea di «bando» come pubblica dichiarazione o pubblico editto.
  2. Nel tardo latino si trova «bànnum» nel senso di editto regale o di un’autorità costituita per cui acquista il senso esteso di «divieto», come nell’antico germanico «Bann» che significa interdetto e quindi espulso. La norma «bandita» dal legislatore è norma «intimata/imposta»,
  3. Bandito è participio passato di «bandire» nel senso di dire autorevolmente e pubblicamente e di dare l’ostracismo a qualcuno che è dichiarato «extracomunitario».

Questi due significati: dichiarare pubblicamente ed escludere ancora oggi conservano il loro pieno significato, condensato nella parola «bandito».

Nel libro di don Aldo Antonelli, questi significati coesistono perché egli da una parte dichiara pubblicamente «il non detto» della «norma» che è la Parola di Dio e dall’altra è proprio un «bandito» cioè un esiliato, un estromesso perché nuoce alla vita dell’ordinarietà banale. La banalità e gli esseri banali hanno un terrore immenso di chi pensa e chi cerca la verità, almeno quella che percepisce. Viviamo in un mondo di «servi volontari» che si adeguano, si accucciano, fino ad autoproclamarsi «servi volontari»[1]. Non solo sono servi, ma scelgono di essere servi, dentro la Chiesa e dentro la società.

Si vive di paura «manipolata», perché è stata trasformata da meccanismo di difesa importante ed essenziale in strumento di dominio e di terrore. A p. 123 leggiamo: «Nella Chiesa è entrata la paura e non sappiamo come liberarcene… Paura del peccato, paura dell’inferno, paura del futuro, paura dell’“Altro”[2] (musulmano o ateo che sia), paura della contrarietà (i venti contrari…)», eppure noi diciamo di credere in uno che da risorto ha detto una parola forte e senza esitazione: «Coraggio sono io, non abbiate paura»!

Da cosa nascono le nostre paure? Penso che in terra veneta, e specialmente a Verona, occorre porsi la domanda, perché qui è avvenuta una trasformazione genetica che è passata dal senso di universalità al senso dell’egoismo in maniera quasi impercettibile. Quando io e Aldo studiavamo qui, al Seminario N. S. di Guadalupe in San Massimo, Verona era un crocevia di nazionalità, di culture, di scambi e di esperimenti. Ospitò centinaia di giovani che venivano da tutta Italia per imparare a convivere con l’Africa, l’America del Sud e i popoli dell’Asia.

Verona negli anni ’60-’70-’80 fu la città sul monte (cf Mt 5,14-16) che convocava i popoli al monte del Signore della profezia di Isaia perché insieme si potesse ascoltare la sua Parola e costituire un solo popolo (cf Is 2,1-5). Verona fu la città profetica posta sul monte che illuminava l’Italia e il mondo. Verona non ebbe paura, ma mandò i suoi figli e figlie in Africa a condividere vita, destini, futuro, povertà e miseria con quel Continente che si apriva all’indipendenza. Per più di due secoli e mezzo Verona fu un porto di terra dove ognuno era accolto per quello che era: uomo o donna, figlio e figlia della terra, del vento e del cielo. Nessuno, allora, poteva immaginare solo la parola terribile di «extracomunitario», come parola d’ordine per inchiodare chi «non è dei nostri» (cf Mc 9,38) come se noi avessimo il monopolio della «comunità».

Verona: terra cristiana e missionaria, terra leghista

È venuto il tempo per cui Verona deve domandarsi: come mai da cullo della spiritualità cattolica e madre della missionarietà nel mondo, Verona è diventata leghista, xenofoba, chiusa, individualista. A parere degli studiosi e delle persone di pensiero, nell’ultimo quarto di secolo, Verona è crollata anche culturalmente e sarà destinata a morire di asfissia, se non ritorna sui suoi passi. Verona, la città dei missionari e delle missionarie, oggi è una città chiusa in sé, gretta e rattrappita nel segno della morte: «prima i Veronesi, i Veneti, gl’Italiani e poi se ne avanza anche gli altri, ma a casa loro».

Un credente queste parole non potrebbe nemmeno pensarle perché vengono dal diavolo; se la fede non si traduce in storia, noi ci poniamo fuori della storia. L’espressione «Regno dei cieli o di Dio» non riguarda ciò che è dopo la morte, ma secondo il linguaggio semitico e simbolico, significa: un nuovo modo di relazionarsi tra le persone riconoscendo a tutti lo stato di figli di Dio.

Leggendo il libro di don Aldo, ho avuto l’impressione di avere per le mani le cordicelle che aveva Gesù quando scacciò i mercanti dal tempio perché la «Casa di suo Padre era casa di preghiera» (Gv 2,13-17) cioè casa di accoglienza della fraternità. Ogni volta che noi «osiamo» pregare «Padre nostro», ci condanniamo da soli perché in quell’aggettivo possessivo esprimiamo la nostra professione di fede, ma anche la nostra condanna di esclusione dalla Paternità se anche solo inavvertitamente escludiamo un solo fratello e una sola sorella dalla nostra fraternità. Il «Padre nostro» è l’atto più politico che possiamo porre nella storia perché specialmente nel contesto dell’Eucaristia è l’annuncio che il pane va spezzato e condiviso col mondo. Come cristiani siamo chiamati a essere «sale della Parola» (cf Mt 5,13) – che è il sottotitolo del libro –, ma se siamo solo come dice Papa Francesco «cristiani da pasticceria», allora è meglio abbandonare la Chiesa, sbattezzarsi e andare all’inferno da soli perché se un inferno c’è, esiste per i solitari.

Il sale della Parola

Essere «sale» non è questione da poco perché ci pone di fronte a una scelta radicale di vita. Spesso noi indentifichiamo la conoscenza e la sapienza in modo indifferente creando qualche problema. Conoscere deriva da «cum-agnòscere» latino e dal greco «gig-nôskō» che derivano dalla radice «noûs-pensiero/mente/intelletto» e quindi attività speculativa che in sé può prescindere dalla realtà. «Sapere», invece, deriva da «sàpere» che è collegato a «sale» dal greco «àls/àlas» che a sua volta dà il contenuto alla parola «salario» perché il sale valeva come moneta di scambio: era un valore immenso. Se «conoscere» ha bisogno di studio, cultura, lettura, ascolto, «sapere» ha bisogno della vita perché mette in atto il gusto, il sapore, l’odore, l’annusare e quindi l’esperienza di vita.

«Sale della Parola» non significa avere qualche nozione, ma immergersi in essa, sporcarsi interiormente, annusarla, mangiarla (cf Ez 2,1-3,9), ruminarla, assimilarla finché non diventi sangue e carne di vita trasfusa[3]: Parola-sale: la Parola è il nostro salario, il nostro valore prezioso.

Don Aldo c’invita a p. 65 al «silenzio» come invitava a fare il grande poeta indiano Tagore: «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio» e ne ha ragione perché siamo frastornati dal cicaleccio polverose di morte parole: «Il silenzio è la condizione per l’ascolto, per ascoltare gli altri e le cose: sì, le cose, perché anche le cose parlano». Il silenzio come vertice della Parola. Scrive una poeta veronese e abitante a Garda: «Ascoltare il silenzio. / E per sentirlo, / immergersi nel vero. / Farsi pensiero / di tutto, / tacendo. / Farsi tutto / – sapendo – / nel pensiero»[4]. Questa è la cura e l’antidoto per non cadere nelle trappole anche pseudo-politiche di chi urla per impedire alle persone di guardare oltre il proprio ombelico, alzare lo sguardo oltre la siepe e scoprire un mondo totalmente nuovo e un Dio totalmente estraneo a questa sedicente chiesuola cattolicante che si nutre di paglia, mentre rifiuta il pane e la Parola.

A p. 55, citando Bonhöffer delle «Lettere dal carcere», l’autore accetta di rifiutare di essere «homo religiosus» come era Giovanni Battista e pretende di essere solo «Uomo» (cf Gv 19,5) come lo fu Gesù che non era prete, non era monaco, non era sacrista, non era vescovo, ma semplicemente laico, uomo, e per questo dalla spiritualità intensa e assoluta e profonda. Egli scendeva nel suo pozzo profondo e non dava per scontato Dio, ma lo scopriva giorno dopo giorno negli avvenimenti e nelle persone, nelle persone più scartate. Se venisse oggi, raccoglierebbe tutti i migranti e li porterebbe nelle chiese del mondo e dopo averne preso possesso, direbbe con Giacobbe: «Terribilis est locus iste non est hic aliud nisi domus Dei et porta caeli» (Gen 28,17).

Da qui nasce l’esigenza di riscoprire, per i credenti, la laicità (p. 157-158), rinunciando alla presunzione di battezzare ogni cosa per concederle «valore» perché la pienezza di senso è intrinseca a ogni esistente e realtà creata perché Dio non è cattolico o protestante o ortodosso o ateo o agnostico, ma è Dio, la prospettiva della pienezza, il vertice del desiderio umano che in Gesù prese corpo e a cui noi aspiriamo (cf Gaudium et Spes, n. 36).

Dal punto di vista esterno, il libro di 186 pagine e tratta 60 titoli che corrispondono alle celebrazioni domenicali che si fanno nelle parrocchie. Si potrebbe dire che sono piccole omelie. Forse, perché sarebbe sminuirle se le intendiamo come «prediche»; se invece diciamo omelia nel suo senso etimologico allora si può dire.

Nota filologica. «Omelia» non è sinonimo di «omelette» (come spesso sono i commenti del vangelo della domenica); la sua radice è nel greco «omou-insieme, nello stesso luogo» e «omòs-simile» per cui il verbo «omilèō» acquista il senso di «stare insieme nello stesso luogo in modo simile» e quindi «conversare/discutere insieme». La parola si è arricchita nel corso dell’evoluzione linguistica per arrivare a significare «dire la Parola oggi, nello stesso luogo», cioè nel contesto dove la parola è detta. In altre parole significa incarnare il detto nella vita in cui la parola acquista vita, dinamismo, attualità.

Da questo punto di vista, don Aldo è un vero «omilèta» perché afferra la Parola e la inchioda nella storia dell’adesso e qui, del qui e ora e ci costringe e fare un discernimento di grande impatto. Don Aldo non è biblista e non ne fa sfoggio, ma è un figlio della Parola e lo trasuda da ogni parola e poi è anche un mangiatore di parole di altri e e quindi si nutre di buone letture per cui non è mai fuori né di sé né da Dio. Il bandito dell’inizio diventa così uno stato di grazia perché solo chi è stato capace di uscire fuori, è e sarà anche capace di tornare e rientrare in piena libertà. Spero che possa entrare nelle vostre case e principalmente nei vostri pensieri e nei vostri cuori, anche perché si legge con gioiosa scioltezza.

[1] Cf Étienne de la Boétie [1530-1563], Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere Editore, Milano 2015

[2] Nel testo è proprio cosi: maiuscolo!

[3] Per un approfondimento adeguato cf Massimo Angelini, Ecologia della Parola, Pentàgora 2017,44-48.

[4] Alida Airaghi, Il silenzio e le voci, Nomos Edizioni, Busto Arsizio, VA, 2011, 18.

Due momenti della presentazione di mercoledì 23/6/2018 nel Teatro Parrocchiale di Bussolengo (VR)

Paolo farinella, Aldo Antonelli, Gabrielli editori, Felice Tenero, Bussolnego, Parrocchia Santa Maria Maggiore20180523_214156

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