Ildegarda di Bingen, Osservatore Romano 6/4/2017

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La forza di una donna

di Cristiana Dobner

Mater, Magistra, Sibilla del Reno, Ildegarda di Bingen (1098-1179), monaca benedettina, “povera donnetta” come si autodefiniva, non solo ha scrollato da sé la polvere dei secoli ma è stata riconosciuta dottore della Chiesa nel 2012. Viene compensata così l’assenza delle donne dalla “grande storia”. Michela Pereira, studiosa di Ildegarda, ne traccia biografia e pensiero con chiarezza e rigorosa documentazione nel suo ultimo saggio Ildegarda di Bingen. Maestra di sapienza nel suo tempo e oggi (Verona, Gabrielli, 2017, pagine 175, euro 15). Soprattutto spiega che cosa dice oggi a noi, non solo donne ma persone pensanti del nostro secolo, una simile figura poliedrica ma molto lontana dalla nostra esperienza quotidiana: «Il ritorno di Ildegarda nella cultura contemporanea è avvenuto attraverso vie molto diverse tra loro: la ricerca delle tracce della presenza e della differenza femminile nella storia occidentale messa in moto dal femminismo degli anni Settanta, l’interesse per la musica medievale che ha portato a riscoprire il valore delle sue composizioni, l’apprezzamento per la sua medicina nell’ambito delle terapie olistiche…». Nel secolo XII la monaca si impose con la sua scrittura e la sua parola: una «figura “eccezionale” come Ildegarda mostra la reale possibilità di una cultura sapienziale, che collega strettamente l’uso della ragione alla cura della vita, esprimendosi con modalità “profetiche”, ovvero facendosi portavoce di una realtà che trascende i confini della propria persona e della propria esperienza, e intervenendo politicamente nel proprio tempo con la piena assunzione di responsabilità, e anche con tutta la fatica, che la presa di parola comporta». La forza femminile traspare in tutta la sua vita: «la possibilità di ottenere una conoscenza del mondo e della storia “a partire da sé”, dal profondo e dall’apertura della trascendenza, costituisce pertanto l’insegnamento culminante di Ildegarda profeta». Fin da piccola, «piuma portata dal vento dello Spirito», le visioni le si erano imposte come luce sul suo cammino: «quando avevo appena tre anni vidi provenire dal cielo uno splendore, che mi fece tremare l’anima nel corpo, ma poiché ero solo una bambina piccola non riuscii assolutamente a parlarne». Nel 1147 il Papa Eugenio 11 le concesse di divulgarle: «Io dunque, povera creatura priva di forze, per quanto indebolita dalle molte malattie, mi sono infine accinta a scrivere con mano tremante». Nel silenzio dell’abbazia Ildegarda vive fra il suo orto, in cui coltiva le erbe medicinali, e lo scriptorium in cui depone sulla pergamena quanto intuisce, vede e riflette con una ricca e fantasiosa scrittura immaginifica. Lotta con i grandi del suo tempo, in una società indubbiamente patriarcale, cioè governata da uomini, per annunciare la Parola, per rimproverare perfino Federico Barbarossa, mentre le era stato detto «alla donna non è dato di occupare il mondo con le parole». Rese così la sua esistenza di malaticcia una fioritura luminosa, trasformando il suo limite in creatività. Con un’alta considerazione della sua femminilità, afferma nello Scivias: «È perché Dio fu generato da una donna che la donna è la creatura benedetta tra tutte». Nel pensiero e nel contesto esperienziale Ildegarda scopre che «l’anima è il principio vitale (viriditas) della carne, perché il corpo umano ad opera sua cresce e progredisce, come la terra dà frutti ad opera dell’umidità; l’anima è anche l’umidità del corpo, perché lo mantiene umido affinché non si inaridisca, come la pioggia imbeve la terra. E come la terra produce frutti utili e inutili, così l’uomo ha in sé il desiderio del cielo e il gusto del peccato». Ildegarda è testimone di una “filosofia medicinale”, come ha scritto Maria Zambrano in cui la Sophia, la sapienza femminile di Dio, gioca un ruolo di illuminazione particolare: «Io, infiammata vita del divino essere originario, scintillo sulla bellezza dei terreni dei campi, brillo nelle acque, ardo nel sole, nella luna, nelle stelle». Lunga fu la vita di Ildegarda, vaso di terracotta dove abita la Luce di Dio e di cui il monaco Volmar affermava: «Ciò che ci permette di usarlo è il vuoto al suo interno», quando giunse il momento di rendere la sua anima a Dio «due archi luminosissimi di diversi colori apparvero nel cielo e… nell’intersezione brillò una luce chiara come quella della luna piena… dentro si vide una croce scintillante». Di Cristiana DOBNER, Osservatore Romano, 6/4/2017

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