Ernesto Buonaiuti, non solo un modernista
di Pietro Urciuoli, curatore con Vittorio Bellavite della nuova edizione del libro di Ernesto Buonaiuti, La chiesa romana, prefazione di Gilberto Squizzato, Gabrielli editori
La vicenda storica di Ernesto Buonaiuti è certamente legata a filo doppio al modernismo tanto che è diventato ormai quasi un luogo comune associare l’uno all’altro; ciò almeno presso il grande pubblico, visto che per vari motivi tale vicenda ha assunto dimensioni e caratteristiche così peculiari da valicare l’ambito di interesse esclusivo della Chiesa cattolica. Ebbene, tale associazione è giusta se la intendiamo nel senso che Buonaiuti è stato il principale protagonista del modernismo; non lo è, invece, se la intendiamo nel senso che la sua attività coincide con questo movimento culturale.
Occorre infatti tener conto che la parabola intellettuale di Ernesto Buonaiuti (Roma, 1881-1946) si estende su un lungo arco di tempo, ben quarantacinque anni: il suo primo articolo è del 1901 (un articolo che scrive su una rivista di Romolo Murri), gli ultimi scritti sono del 1946 (anno della sua morte). Quarantacinque anni in cui il suo pensiero subisce una progressiva evoluzione, un progressivo allargamento di orizzonti.
Il modernismo segna la prima fase della sua attività. Buonaiuti è un giovane prete di 26-27 anni che si getta con grande entusiasmo in questa nuova avventura: stende Il Programma dei modernisti (1907), scrive le Lettere di un prete modernista (1908), fonda una rivista Nova et vetera (1908). Prende posizioni anche molto estreme, specie in questi due ultimi titoli, perché il suo entusiasmo è direttamente proporzionale alla delusione con la quale era uscito dal seminario; studente acuto e brillante, si era reso conto che l’impalcatura filosofica alla quale era stato formato, il sistema scolastico-tridentino, non reggeva più il confronto con la cultura moderna e aveva cominciato a studiare nuovi paradigmi filosofici (come l’immanentismo o il pragmatismo) e ad adattarli alle esigenze dell’apologetica. Ecco un passo del Pellegrino di Roma, la sua autobiografia del 1945, in cui ricorda quegli anni e la sua presa di consapevolezza:
In fondo, per quanti di noi, appartenenti ad una vera e propria nuova generazione dell’esodo, si delineò, agli albori di questo secolo, la sensazione netta e indeclinabile del contrasto fra le conclusioni delle discipline morali e storiche applicate al fatto religioso e al fatto cristiano, e le proclamazioni cosiddette infallibili degli ultimi concili ecumenici di Trento e del Vaticano, il trapasso dalla vecchia alla nuova fede non poteva non avere il carattere tipico di una conversione.
Questo sacro fuoco riformatore dura alcuni anni, caratterizzati da accese polemiche con Civiltà Cattolica. Nel 1921 viene raggiunto dalla scomunica, a causa di un articolo pubblicato nel 1920 sulla rivista Religio, dal titolo Le esperienze fondamentali di Paolo, in cui viene accusato di mettere in dubbio la presenza reale di Cristo nell’eucaristia. Comincia così un percorso di riflessione, di maturazione, smussa tanti angoli, tante asperità. Pubblica vari libri – come Apologia del cattolicismo (1923) e Verso la luce (1924), alcuni dei quali pubblicati anche con l’approvazione ecclesiastica – nei quali è evidente questo suo graduale cambio di prospettiva; un cambio di prospettiva che però non gli evita la scomunica del 1924 e quella definitiva vitando del 1926. Ne Una fede e una disciplina (1925), un libro in cui descrive le sue controversie con il Sant’Uffizio a partire dal 1921, il secondo capitolo si intitola non a caso “La maturazione spirituale”. Significativa è anche la prefazione:
Educato da mani destre e sagaci alla conoscenza del pensiero tomistico, io provai un urto violento e sconcertante al primo contatto con la filosofia e con la critica in cui si è esplicata l’originalità della speculazione moderna. Ad una prima sensazione nella quale, al vacillare delle principali posizioni del realismo aristotelico-scolastico sembrò dovesse seguire la rovina della costruzione stessa razionale del dogma e della credenza cattolica, successe sollecitamente una volontà risoluta di salvare, attraverso un’adozione coraggiosa dell’apologetica dell’immanenza, il nucleo centrale della rivelazione neotestamentaria, circoscritto probabilmente in confini troppo esigui e troppo limitati, per rappresentare in maniera sufficientemente adeguata quel minimo di pensiero, di disciplina e di rito, che solo consente logicamente di accampare i propri diritti all’ortodossia. […] Ma più tardi, una più maturazione riflessione intorno alle postulazioni insopprimibili di ogni esperienza religiosa, capace di legare le anime in una genuina solidarietà di ideali e di aspettative, e della esperienza cristiana in particolare, in sede filosofica, mi fece adagio adagio scoprire la impossibilità di collegare l’apologetica ad una qualsiasi forma di soggettivismo e di immanentismo.
Parole che non lasciano spazio a dubbi interpretativi e che testimoniano di una vera e propria svolta nel suo pensiero negli anni centrali della seconda decade del secolo.
Ma nel pensiero di Buonaiuti si riscontrano anche altri snodi significativi.
Nel 1931 viene privato della cattedra universitaria a causa del suo rifiuto di prestare il giuramento di fedeltà al regime fascista; rimane disoccupato e privo di mezzi economici di sostentamento, a parte i proventi che gli derivano dalla sua attività pubblicistica. Gli viene incontro la Chiesa metodista di Roma che lo invita a tenere dei cicli di lezioni universitarie; è l’inizio di una collaborazione con il mondo evangelico che si approfondisce nel corso degli anni. Ecco quindi che per Buonaiuti si apre un nuovo scenario, l’ecumenismo, con la ricerca di una fede vissuta fuori dalle strettoie confessionali. Nel suo testamento spirituale scrive:
Mi sento partecipe, in speranze e comunione, con quella nuova Chiesa cristiana ecumenica a cui ho veduto lavorare quelle denominazioni evangeliche che mi sono sempre apparse salutarmente travagliate da un autentico spirito di fraternità, di pace e di vita carismatica nel mondo.
Un Buonaiuti ecumenico ma sempre, nonostante la scomunica, radicalmente cattolico, come dimostra il rifiuto opposto al rettore dell’Università evangelica di Losanna che nel 1939 gli offriva la cattedra universitaria, perché ciò avrebbe richiesto necessariamente l’adesione alla Chiesa evangelica.
Con gli anni i suoi orizzonti si ampliano ulteriormente. Nel luglio 1937 viene invitato a tenere una conferenza al World Congress of Faith di Oxford e pronuncia un discorso sul tema Il bisogno mondiale della religiosità. Dopo aver citato in apertura il suo maestro George Tyrrell, in un passaggio in cui affermava che la reviviscenza della religiosità è affidata agli esuli di tutte le chiese, sviluppa un discorso che rappresenta un ulteriore punto di svolta della sua riflessione, che ora attinge una dimensione sovraconfessionale e si estende a tutto il fenomeno della religiosità. Secondo Buonaiuti per salvarsi dall’universale naufragio delle religioni costituite “occorre riscoprire nelle fedi, la Fede”, una Fede che sappia svincolarsi da ogni tradizione filosofica e recuperare il senso sacrale della vita in tutte le sue manifestazioni.
Le vecchie fedi sono logorate dal millenario consumo. Le tradizioni costituite sono impoverite e rese inefficaci dal loro stesso processo di troppo minuta e casistica determinazione. Perché esse possano riguadagnare la loro capacità edificativa occorre evidentemente riportarle alle loro fonti originarie, risaggiarle su quelle pietre di paragone che sono i valori centrali della religiosità umana. Per usare il linguaggio del Bergson, mai come oggi la religiosità e la morale statiche debbono sboccare nella religiosità e nella morale dinamiche, che non si sottopongono alla delimitazione rigida delle formule dogmatiche e delle discipline burocratiche, ma cercano la libera via della comunicazione universale nei misteri di Dio
Ecco quindi che nel lungo arco di attività intellettuale di Ernesto Buonaiuti si possono individuare vari snodi, vari passaggi in cui il suo pensiero si arricchisce di nuove dimensioni e acquista nuove caratteristiche; una dinamicità interna che non consente di appiattire Buonaiuti sul solo modernismo.
Una dinamicità che trova ampio riscontro nella sua vastissima produzione. Oltre al già citato Una fede e una disciplina (1925), si possono ricordare il volume recentemente riproposto dall’editore Gabrielli, La chiesa romana (1932), frutto della sua collaborazione con il mondo evangelico e che segna l’inizio della sua apertura all’ecumenismo e Il modernismo cattolico (1943), un volume nel quale a trent’anni di distanza rilegge tutta la storia del modernismo tracciandone un bilancio consuntivo con luci ed ombre (non è forse superfluo ricordare che nella sua autobiografia, di soli due anni successiva, definisce le Lettere di un prete modernista come “un peccato di gioventù”).
In definitiva, una lettura che ne colga il pensiero nel suo sviluppo complessivo e nella sua dinamicità interna ci restituisce un Buonaiuti ancora più moderno e attuale di quello a cui siamo già abituati e fa delle sue riflessioni un potente strumento per leggere il nostro presente.