Beethoven e le sue Sinfonie – La drammatica necessità del comporre

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MUSICA IN VILLA 2016
“BEETHOVEN IN VALPOLICELLA”

Beethoven letto da Marco Angius, Direttore musicale e artistico dell’Orchestra di Padova e del Veneto
www.opvorchestra.itwww.marcoangius.it

intervista di Leonardo Mezzalira

Da quando è divenuto Direttore musicale a artistico dell’OPV, Marco Angius ha iniziato un percorso di rinnovamento che, nell’ambiente musicale cittadino, risulta una sorta di piccolo ciclone. L’atteggiamento che sta alla base di questa rivoluzione non dovrebbe, in realtà, risultare rivoluzionario: consiste in differenziazione dei repertori, attenzione alla musica contemporanea, messa in rete del lavoro dell’OPV con quello delle altre realtà musicali italiane, cura nello studio dei brani. Insomma, ciò che ogni orchestra dovrebbe fare: ma, poiché è inconsueto, fa notizia.
Dall’intervista che segue, nata intorno al Ludwig Van Festival ma presto scivolata su altri temi che vanno dal senso della storia della musica in generale alle articolazioni del ruolo dell’interprete, emerge chiaramente uno dei motivi per cui Angius riesce a proporre questi cambiamenti e a portarli a buon fine. È il suo impulso inesauribile a mettersi in gioco, a mettere in discussione sé e le idee preconcette che trova nel mondo, e ad esplorare con entusiasmo le linee di ricerca che gli sembrano più fertili, ancorché meno battute.

Da quando è il direttore artistico e musicale dell’OPV, lei fra l’altro ha portato la compagine a un maggior contatto con la musica contemporanea. Che ruolo ha, nel nuovo corso da lei inaugurato, questo studio estensivo su Beethoven? Risponde, oltre che a un bisogno del pubblico, anche a un bisogno suo e dell’orchestra?

È vero, ho sempre seguito un percorso di esplorazione della creatività contemporanea, quello della sperimentazione che proviene dalle avanguardie post-weberniane. Il passato stesso mi interessa in quanto osservato dall’ottica del presente. In verità, il passato è irraggiungibile: non è certo la volontà testamentaria del compositore, fissata sulla partitura, a restituircene l’autenticità, come credono gli adepti della filologia ortodossa. Tra il segno/partitura e il suono/gesto corre un abisso incolmabile. L’Autore si distacca definitivamente dalla sua opera compiendola. L’opera vive nell’aria e cambia a seconda dell’acustica, dei musicisti, della serata: è incompiuta per definizione e si realizza solo parzialmente durante l’atto interpretativo. La musica è immanente, avviene negli attimi concatenati della performance, vive negli sguardi tra i musicisti, nella concentrazione del pubblico, nei respiri, nella tensione che s’instaura o s’allenta.
La scelta di proporre una lettura integrale delle Sinfonie di Beethoven, che non veniva affidata a un unico direttore dai tempi di Peter Maag, mi è sembrato un modo di ricollegarmi al repertorio elettivo dell’OPV e di dialogare direttamente col pubblico. Mentre in Stagione ho proposto all’Orchestra di affrontare lavori nuovi e inconsueti per la loro storia, ora sarà proprio l’Orchestra, con Beethoven, a condurmi nel proprio repertorio.

Ha scritto che Beethoven oggi è “semplicemente necessario”. Si tratta di una necessità estetica, legata al ruolo che ha avuto nello sviluppo della musica, o anche umana, esistenziale, filosofica?

Questa frase è dettata innanzitutto da una profonda esigenza personale e artistica, quella di confrontarmi in modo continuativo con un compositore che è la quintessenza stessa della modernità. Beethoven è un ciclone che è riuscito a condurre la musica fuori dei propri confini di genere facendone un fenomeno universale, assoluto, fuori della storia. Mi ha colpito leggere di come l’autografo della fuga doppia della Nona, completato nel febbraio 1824, sia stato smembrato dopo la Seconda Guerra Mondiale in due tronconi, conservati a est e ovest del muro di Berlino, prima di essere riunito definitivamente alla Staatsbibliothek in più faldoni. Una specie di reliquia sacra, come è comprensibile fosse per il popolo tedesco, e non solo.
La musica di Beethoven si muove strettamente all’interno del sistema tonale codificato nel secolo precedente: i suoi “temi”, molto spesso, sono incisi di carattere prevalentemente ritmico che combinano gli elementi costitutivi stessi del linguaggio tonale. In cosa Beethoven forza i limiti del linguaggio ereditato dal precedente classicismo?
Direi in tutto e costantemente. Beethoven è un anti-classicista convinto: usa il lessico del classicismo, ma nella sintassi la sua preferenza va da subito a procedimenti neo-barocchi come la scrittura contrappuntistica e la fuga, e con il suo ultimo stile, com’è stato notato, fa esplodere il linguaggio classico anticipando la Seconda Scuola di Vienna.
Soprattutto, tra le varie innovazioni e rivoluzioni della sua musica, c’è quella d’introdurre il concetto di urgenza, di necessità del comporre come fenomeno esistenziale, drammatico e irreversibile. Il rovello del singolo artista si trasmette all’intera società e da questa a tutto il genere umano, alla natura, all’universo circostante. Con Beethoven la musica non parla più di se stessa ma abbraccia il creato. Anche in questo senso Beethoven è un anti-classico.

Le sinfonie di Beethoven sono il trionfo della forma-sonata: una sorta di ciclo dialettico basato su una coppia di temi di carattere diverso che vengono contrapposti e in qualche modo ricomposti. È d’accordo?

Direi piuttosto che le Sinfonie, come altri rami della produzione beethoveniana, rappresentano il tramonto della forma classica. Si pensi al finale aperto della scena al ruscello nella Pastorale in cui, di fatto, il brano non finisce ma si disperde in un’atmosfera percorsa da segnali ornitologici stilizzati che anticipano i richiami della Prima di Mahler. E si pensi alla nuova concezione degli Scherzi  in dialettica con i Trii annessi: anche qui Beethoven va oltre la forma-sonata per delineare una forma a finestre, come l’ha felicemente definita Sciarrino nel suo volume Le figure della musica. In essa la tensione tra micro e macro-forma viene fatta saltare da un bombardamento a catena di incisi ritmici in costante bilico tra arsi e tesi, che prefigura un montaggio compositivo da epoca del computer. Lo stesso che si può individuare anche nel finale della Quinta Sinfonia (quando, con una brusca frenata, riappare il precedente Scherzo) e soprattutto in quello della Nona, in cui la sequenza genetica dell’intera sinfonia viene ripercorsa a balzi vertiginosi. A Beethoven interessa esplorare il modo in cui un conflitto di principi compositivi possa far scaturire un’innovazione concettuale della forma; da questa angolazione, il vero erede di Beethoven nel Novecento è Stockhausen.

Presentare in concerto brani molto noti, come le sinfonie di Beethoven, può essere rischioso: molti ascoltatori arriveranno al concerto con delle idee già formate di quello che li aspetta. È possibile che il concerto venga investito di un carattere quasi rituale. Ci sarà invece una dimensione di novità?

In realtà dirigere Beethoven, per me, richiede lo stesso approccio di quando presento pezzi in prima esecuzione assoluta. La mia lettura si concentrerà su due aspetti principali: una propensione per l’assetto cameristico degli organici, e alcune scelte di tempi che, a catena, influenzano il fraseggio, il suono e tutti i parametri del far musica. Dal mio punto di vista, l’aggiunta dei metronomi operata da Beethoven successivamente alla composizione delle sinfonie è senza dubbio indicativa, ma non esclusiva. Noi guardiamo a Beethoven dopo il passaggio della poetica stravinskiana e delle avanguardie, in cui il tempo viene cristallizzato a fini strutturali; ma nella prassi musicale non c’è mai una battuta veramente uguale all’altra a causa di un’infinità di variabili localizzate. Esiste una netta contrapposizione tra una concezione astratta del tempo, concepito come entità esterna alla musica e scandito da un tactus costante e immutabile sancito dall’indicazione del metronomo (Stravinsky), e una concezione del tempo secondo cui questo si dipana a partire dal suono, dall’intervallo necessario perché un suono viva o scompaia (ipoteticamente, Wagner e Mahler).
In fin dei conti, il lavoro dell’interprete è questo: carpire il senso latente e la logica del comporre insite in un’opera attraverso il sistema semiotico che la rappresenta, poi scegliere ascoltando e procedere per esperienza e intuito. Il resto lo giudicherà il nostro pubblico.

 

per gentile concessione dell’Ufficio stampa dell’Orchestra di Padova e del Veneto

 

 

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